MACCHINE DEL DESIDERIO

Estratti da "Macchine del desiderio",
pubblicato nel libro Makkine (O)scenike
di Nicola Macolino
Palladino Editore, 2006.

Con interventi critici di: Stefano Calzi, Fabrizio Crisafulli, Emanuela de Notariis, Gian Ruggero Manzoni, Antonio Picariello.



La decadenza di un luogo disabitato, i materiali di scarto, resti di passati obliati, sono diventati materia plasmabile, elementi che Macolino ha reso parte di un meccanismo evocativo.
Come avviene nei suoi spettacoli, anche in questa mostra il pubblico non è riuscito a mantenere una distanza tra sè e le opere d’arte, poichè non poteva chiudersi nel ruolo di spettatore inattivo, distaccato. L’intero spazio espositivo, il palazzo con tutte le sue stanze e i vecchi oggetti polverosi, è divenuto infatti tutt’uno con le creazioni che Macolino vi ha collocato, un unico organismo pulsante, ma senza organizzazione gerarchico-funzionale tra le sue parti. Formato da elementi (opere e luogo) in rapporto non gerarchico, ma organico, poetico. Ogni stanza ed ogni oggetto possono essere considerati come singoli organi di un corpo, quello dell’arte, o dell’immaginario dell’artista fattosi materia/carne, in cui lo spettatore si addentrava. Per relazionarsi con le opere, organi orientati da un desiderio relazionale, reciproco e nei confronti del pubblico. Mi piace immaginare il viaggio che Macolino ci ha proposto all’interno del suo mondo di creature misteriose e affascinanti, come viaggio all’interno di un’ unica opera d’arte viscerale, di un immenso meccanismo composto da ingranaggi organici, vivi; macchine/organi con facoltà comunicative autonome, ma collegati l’uno all’altro da una logica dell’ evocatività, del sentire, che li rendeva unità.
In ogni stanza le creazioni sceniche dell’artista hanno creato un’atmosfera, frammenti di una scena da riassemblare o reinventare, di un accadimento che ad ogni tentativo di interpretazione rimandava ad altro da sè. I visitatori si sono trovati al cospetto di oggetti di scena divenuti opera, divenuti ambiente, resti accatastati nel palazzo, come objects trouvée dotati di potenziale scenografico-emozionale. Caratteristica e grande abilità di Macolino è quella di creare una forte, spesso violenta, risonanza tra il luogo, le creazioni scenografiche, gli attori (nel caso del teatro) e il pubblico. La sua mostra, proprio come i suoi spettacoli, è andata al di là della contemplazione, per essere vissuta, proprio per quella capacità di risonanza che le “makkine osceniche” riescono a mantenere, anche se avulse dal contesto originario.
Nicola ha trasformato Palazzo Campiello in un mondo avvolgente e seducente, al cui ingresso la “Cabina”, già passaggio situato nella zona di inscindibilità tra finzione e realtà durante lo spettacolo “EVNI” (2004), costringeva il pubblico a passarvi dentro, destabilizzandolo. Ci si scopriva infatti titubanti, vulnerabili, davanti alla soglia di un luogo misterioso, senza più coordinate, poichè non coincidente al mondo consueto. Lo sconcerto del visitatore diveniva però, addentrandosi sempre più, desiderio: ci si scopriva a desiderare che le aspettative, impossibilitate dalla non corrispondenza di oggetto e significato, non venissero mai soddisfatte. Perchè l’arte di Macolino crea una relazione che eccede la logica del possesso, con cui l’essere umano si rapporta abitualmente al mondo esterno, è un linguaggio che rimane misterioso. E’ scambio e non coincidenza, si rivela, ritraendosi. Entrando nell’immensa scenografia costruita dall’artista, si abbandonavano, come soprabiti all’ingresso di un’abitazione, riferimenti certi, categorie di significato, identità riconoscibili: ciò che ci accompagna nel quotidiano relazionarci con gli oggetti, che ci permette di riconoscere e classificare situazioni ed eventi.
Le stanze del palazzo, recuperate all’abbandono, sembravano abitate da sempre dalle macchine di Macolino, guardiani e carne del suo mondo visionario, che temporaneamente si dà al pubblico negli spettacoli e che in quest’occasione ha dilatato il tempo della relazione, non più scandito dai ritmi scenici, creando un ambiente in cui, offrendosi al pubblico, lo svestivano della propria solitudine. [...]
Macolino ha creato un’unica scenografia dalle molte scenografie dei suoi spettacoli, senza attori, per lasciare spazio al potere evocativo e immaginifico dei soli oggetti. Chi ha assistito, o meglio, partecipato, ai suoi spettacoli, ne riconosceva gli “oggetti”: la luna di “Salomè” (2003, lo spettacolo di Nicola che più ho amato), bianca, come di innocenza e di sudari, di gigli entro i quali si celava crudeltà; luna irraggiungibile eppure accarezzabile, contro cui si infrangevano i desideri ad essa confidati. Oppure i baldacchini da processione, per la celebrazione di un rituale di seduzione e violenza, candore e sangue. [...]
“Makkine (o)scenike” è andata oltre la definizione di mostra, ma non era teatro, nè soltanto installazione; è stato un viaggio in un mondo metamorfico e scenografico, in cui l’immagine era poesia, ebbrezza dei sensi.
Emanuela De Notariis


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